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IL NO SARDISTA PER IL REFERENDUM SULLA PROPOSTA DI REVISIONE COSTITUZIONALE

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La Direzione Nazionale del PSd’Az, riunitasi in Oristano l’11 novembre 2016, ha approvato iDocumento presentato dalla componente Rosanna Ladu, sulle ragioni sardiste per votare NO al Referendum sulla Proposta di Revisione Costituzionale, che si terrà il prossimo 4 dicembre 2016. L’analisi e la riflessioni sardiste sono volte all’inserimento qualificato nel dibattito di revisione costituzionale, entro una contesa politica che da sempre ha visto il PSd’Az esposto in prima linea per ottenere maggiori diritti e garanzie: piena sovranità su lavoro e istruzione, bilinguismo paritario, libertà sulla determinazione della presenza militare nel nostro territorio, potere fiscale e incisive ripercussioni sul diritto agrario regionale. Seppur il carattere tecnico-giuridico degli argomenti mal si presta alla semplificazione mediatica, quelli che sono i caratteri deleteri della proposta di riforma, per i quali occorre alimentare con discussioni di sostanza la campagna referendaria sardista per il NO, dopo un breve quadro introduttivo, son stati ridotti per punti, così da fondare le nostre ragioni per il No alla proposta di revisione costituzionale, non soltanto sul metodo, ma anche sul merito.

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IL NO SARDISTA

PER IL REFERENDUM SULLA PROPOSTA DI REVISIONE COSTITUZIONALE

 

PREMESSA

Le ragioni sardiste per votare NO al Referendum sulla Proposta di Revisione Costituzionale che si terrà il prossimo 4 dicembre 2016 si fondano sulla difesa della specialità sarda, per tradurre in atti concreti quel percorso di Indipendenza sancito nell’Art. 1 del nostro Statuto: Il “Partidu Sardu – Partito Sardo d’Azione” è la libera associazione di coloro che si propongono, attraverso l’azione politica, di affermare la sovranità del popolo sardo sul proprio territorio, e di condurre la Nazione Sarda all'indipendenza (Art. 1 dello Statuto).

Il No alla proposta di revisione costituzionale, si fonda su ragioni non solo di metodo, ma anche di merito.

Occorre preventivamente considerare come la Costituzione italiana per molti indipendentisti, e parte del mondo autonomista, non sia considerata come Carta fondamentale del Popolo sardo, e non deve necessariamente essere intesa come tale. Essa si colloca in un complesso orizzonte di meccanismi e tutele a fronte delle quali la nostra inerzia sarebbe deleteria ed irresponsabile per la Sardegna, poiché disattende mestamente gli stessi ideali dichiarati nell’articolo 1 dello Statuto del Partito Sardo d’Azione riducendoli a meri slogan identitari.

Una massima di J.-J. Rousseau diceva: "I vostri climi più aspri creano più numerosi bisogni, voi vi preoccupate piú del vostro guadagno che della vostra libertà e temete assai meno la schiavitù che la miseria". La deriva autoritaria di questa riforma è speculare alla metafora succitata: passare da una democrazia (con tutti i limiti che talvolta il sistema presenta) ad una oligarchia, non costituisce per nessun sardista un lascito dignitoso per le generazioni future.

Data la rilevanza dell’ argomento, occorre muoversi nella direzione di inserimento qualificato nel dibattito di revisione costituzionale, entro una contesa politica che da sempre ha visto i sardisti esposti in prima linea per ottenere maggiori diritti e garanzie: piena sovranità su lavoro e istruzione, bilinguismo paritario, libertà sulla determinazione della presenza militare nel nostro territorio, potere fiscale e incisive ripercussioni sul diritto agrario regionale: prerogative che - con l’eventuale esito referendario favorevole al SI - uscirebbero inesorabilmente dal nostro potere contrattuale.

Democrazia rappresentativa e democrazia costituzionale non devono essere intese come semplici formule rituali, bensì assumere il precipuo carattere di strumenti in forza dei quali il Popolo sardo possa rivendicare effettivamente i propri diritti attraverso il meccanismo democratico.

Difatti, che ci piaccia o meno, la qualità della democrazia coincide con il sistema costituzionale vigente, teso a stabilire limiti, forme e modalità concrete di esercizio del potere politico, per evitare una ancora più accentuata crisi di rappresentanza dei corpi intermedi che vedrebbe i partiti ridotti a semplici comitati elettorali sempre meno radicati ideologicamente sul territorio.

Oggi siamo dinnanzi ad una crisi della rappresentanza politica e sociale ed una altrettanto profonda crisi della democrazia partecipativa che si interseca con la campagna in corso per l’eliminazione dell’Italicum tramite referendum abrogativo, e in parallelo per via giudiziaria.

Pensiamo allo scarso successo in termini di governabilità delle leggi elettorali maggioritarie che hanno interessato gli anni novanta, e il ritorno nel 2005 al sistema proporzionale con un enorme premio di maggioranza senza una soglia minima di consensi con il sistema elettorale conosciuto come “Porcellum”, che non ha certamente contribuito a migliorare la situazione.

Esso ha creato maggioranze parlamentari artificiali, costituite in prevalenza da soggetti politici nominati dalle segreterie dei partiti e quindi facilmente ricattabili nonostante il divieto di mandato imperativo previsto dalla Costituzione, pena la mancata rielezione. Ciò ha comportato un rafforzamento del potere dell’esecutivo a discapito del ruolo del Parlamento, che non ha comunque favorito un posizionamento più autorevole nei consessi internazionali, anzi, al contempo ha reso l’Italia più prona alle tecnocrazie europee e sovranazionali.

È proprio da queste considerazioni che si deve imprescindibilmente partire per chiarire quelli che sono gli elementi sottesi ad una campagna referendaria per il NO, e comprendere altresì le ripercussioni che dette riforme procurerebbero alla Sardegna.

PROFILO FORMALE E SOSTANZIALE DELLA RIFORMA

Non è difficile essere tendenzialmente d’accordo con un disegno di legge costituzionale avente come dichiarazione di intenti il superamento del bicameralismo paritario (presuntivamente fonte di allungamento dell’iter legislativo), con la riduzione dei costi della politica e del numero dei parlamentari, con la soppressione del CNEL, e la semplificazione del Rapporto fra Stato-Regioni finalizzato all’eliminazione dell’enorme contenzioso davanti alla Consulta scaturente dalla Riforma costituzionale del Titolo V del 2001 in ordine al riparto competenziale.

Sintetizzando le apparentiragioni del Si - che per serietà occorre pur sempre vagliare- possiamo dire che le modifiche parrebbero dirette alla semplificazione, velocizzazione ed efficientamento della macchina pubblica, risparmio di pubblico denaro, implementando nuove forme di partecipazione dei cittadini. Ma a queste pur condivisibili dichiarazioni di intenti non corrisponde purtroppo nessuna disposizione attuativa coerente: non è difficile notare come le modifiche siano complessivamente confuse, contraddittorie e tecnicamente mal scritte.

PERCHE’ IL NO SARDISTA ALLA PROPOSTA DI REVISIONE COSTITUZIONALE?

Seppur il carattere tecnico-giuridico degli argomenti mal si presta alla semplificazione mediatica, è possibile fare un quadro introduttivo e ridurre per punti quelli che sono i caratteri deleteri della proposta di riforma, per i quali occorre alimentare con discussioni di sostanza la campagna referendaria sardista per il NO:

1.   NO AL FINTO SUPERAMENTO DEL BICAMERALISMO PERFETTO DEL NUOVO SENATO E ALLA FINTA RAPPRESENTANZA DELLE REGIONI

Il superamento del bicameralismo perfetto (al quale peraltro sarebbe improprio addebitare la causa primaria delle disfunzioni osservate nel sistema istituzionale italiano), e dell’attribuzione alla sola Camera dei deputati del compito di dare o revocare la fiducia al Governo, è stato perseguito in modo irrazionale e scorretto. Esso infatti non viene superato, e chi sostiene il contrario dice una menzogna poiché permarranno le due Camere a legiferare assieme su molte materie, quando invece si sarebbe potuto coerentemente abolire il Senato e passare al monocameralismo (i ritardi causati dalle “navette” tra le Camere sono un’invenzione: la modifica costituzionale dell’articolo 81 inerente il pareggio di bilancio è stata emanata in poco più di tre mesi).

Nel merito, la riforma prospetta un Senato estremamente indebolito, privo delle funzioni essenziali per realizzare un vero regionalismo cooperativo ed anche privo di poteri effettivi per l’approvazione di molte delle leggi più rilevanti per l’assetto regionale.

Inoltre, l’analogia del nuovo Senato con la seconda Camera tedesca, il Bundesrat, da molti richiamata, non è aderente con la realtà in quanto il modello di bicameralismo fortemente differenziato della Germania ha poco a che spartire con quello introdotto dalla legge di revisione. Innanzitutto, mentre l’Italia ha una forma di stato regionale, la Germania è uno stato federale di 16 Stati federati, i Länder . Il Bundestag è la Camera ad elezione popolare diretta, titolare del rapporto fiduciario con l’esecutivo federale. Il Bundesrat si caratterizza come sede di partecipazione e valorizzazione degli interessi dei Land nella gestione degli affari federali. I membri del nuovo Senato, invece, saranno eletti, con metodo proporzionale, in base ad una futura legge bicamerale, dai Consigli regionali «in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi».

In tale nuovo Senato le Regioni non sarebbero dunque rappresentate in quanto tali, ma attraverso rappresentanze locali articolate in base ad appartenenze politico-partitiche (alcuni consiglieri regionali eletti – con modalità rinviate peraltro in parte alla legge ordinaria – anche come senatori, assommerebbero i due ruoli). Come conciliare le nomine dei consiglieri-sindaci con la carica di senatori secondo il combinato disposto dell’art. 17 dello Statuto speciale della Sardegna e il nuovo art. 57 della Costituzione?

L’art. 17 del nostro Statuto prevede difatti che l’ufficio  di  consigliere  regionale  è  incompatibile  con  quello  di  membro  di  una  delle  Camere  o  di  un  altro Consiglio regionale o di un sindaco di un Comune con popolazione superiore a diecimila abitanti, ovvero di membro del Parlamento europeo“.

In ogni caso, i senatori-consiglieri non rappresenteranno i governi regionali, la voce e le istanze delle regioni di provenienza, ma si organizzeranno al Senato in gruppi in base al partito di appartenenza e senza vincolo di mandato.

2.   NO ALLE REGIONI VASSALLE DELLO STATO

Attraverso il riparto di attribuzioni assegnato alle Regioni da questa riforma, il nuovo assetto regionale ne uscirà fortemente indebolito poiché le stesse verranno private quasi totalmente degli spazi di competenza legislativa,riducendosi ad organismi privi di reale autonomia, e di adeguata garanzia di poteri e responsabilità anche sul piano finanziario e fiscale.

Un altro elemento di forte contraddittorietà in relazione al ruolo di rappresentante delle istituzioni territoriali del nuovo Senato è individuabile nella revisione delle riforma del titolo V della Costituzione, approvata a maggioranza assoluta nel 2001, definita allora riforma in senso federalistico dello Stato. L’attuale revisione, muovendo in senso contrario all’estensione dell’autonomia legislativa delle Regioni (che, in verità , in larga parte non hanno fatto buon uso di tale potere) elimina formalmente la legislazione concorrente, causa di un notevole aumento del contenzioso tra Stato e Regioni davanti alla Corte costituzionale, aumenta le materie di competenza esclusiva della legislazione statale, reintroduce “l’interesse nazionale”, eliminato dalla riforma del 2001, con la possibilità per la legge statale di “invadere” la competenza regionale utilizzando la cosiddetta clausola di supremazia.

In sintesi, la revisione riduce le regioni ad una sorta di super province con funzioni sostanzialmente amministrative. Come si concilia questa neo-centralizzazione delle competenze legislative regionali con l’intento dichiarato di creare un Senato rappresentativo delle istituzioni territoriali?

Insomma, è chiaro come la riforma Renzi-Boschi, con l’eliminazione della legislazione concorrente, rimetta in discussione le competenze che la Regione Autonoma Sarda ha conquistato nel 2001, ad esempio, su istruzione e ricerca: la clausola di salvaguardia metterebbe al riparo le autonomie speciali sino alla revisione degli Statuti, secondo una «previa intesa» con lo Stato le cui modalità non sono tuttavia chiare.

Tutto dipenderà dalla nostra forza contrattuale: probabilmente in Sudtirol e Valle d’Aosta possono anche permettersi sonni tranquilli – data l’egemonia esercitata dai partiti regionalisti – non così in Sardegna. Inoltre, gli effetti del riassetto centralista – con la clausola di supremazia e l’esclusività statale in importanti campi, come in materia energetica – potrebbero comunque sentirsi nelle autonomie speciali, come ha fatto notare Esther Happacher, docente di diritto dell’autonomia consultata da Alto Adige e Valle d’Aosta.

Infine, anche il dichiarato intento di ridurre il contenzioso fra Stato e Regioni viene contraddetto poiché esso non trae origine dai criteri di ripartizione delle competenze per materia, ma piuttosto nella mancanza di una coerente legislazione statale di attuazione (il progetto di riforma, da un lato, pretende di eliminare le competenze concorrenti, dall’altro definisce in molte materie una competenza «esclusiva» dello Stato riferita però, ambiguamente, alle sole «disposizioni generali e comuni»).

3.   NO AD UNA RIFORMA COSTITUZIONALE FATTA DAL GOVERNO IN CARICA

La Costituzione, e così la sua riforma, non può essere il risultato del prevalere contingente di alcune forze politiche su altre, ovvero l’espressione di un indirizzo di Governo. Eppure, in prima battuta l’approvazione referendaria è stata presentata agli elettori come decisione determinante ai fini della permanenza o meno in carica, benché fosse il risultato raggiunto da una maggioranza (incostante) prevalsa nel voto parlamentare anziché dal consenso maturato fra le forze politiche.

Peraltro, il Governo non dovrebbe intervenire sulle revisioni costituzionali, non perché viga in tal senso un espresso divieto di natura giuridica o costituzionale, ma per l’evidente ragione che minoranza e maggioranza dovrebbero confrontarsi liberamente senza limitazioni alla discussione, affinché sia raggiunta la massima condivisione possibile: le costituzioni sono fatte per durare, non sono patrimonio della maggioranza politica contingente (pro tempore).

Si aggiunga, poi, che il Parlamento, sotto stretta e severa sorveglianza governativa, ha approvato la riforma in virtù di quella maggioranza artificiosa e gonfiata creata dal Porcellum, legge che la Corte aveva dichiarato incostituzionale pur facendo salva, rifacendosi al principio di continuità dello Stato, la legittimità “formale” delle Camere.

Inoltre, durante l’iter di approvazione della riforma sono stati utilizzati tutti gli strumenti possibili di diritto parlamentare per ridurre gli spazi del confronto: dalla sostituzione di senatori PD dissenzienti nella Commissione Affari Costituzionali (nonostante il divieto di mandato imperativo), al contingentamento dei tempi di discussione riservati a ciascun gruppo (la cosiddetta tagliola), alla drastica riduzione degli emendamenti tramite il cosiddetto canguro.

Come ultimo atto di condizionamento, vi è stata la forzatura sui parlamentari della maggioranza affinché fosse richiesto ex art.138 - non essendo stati raggiunti i due terzi di voti favorevoli alla legge di revisione - il referendum confermativo sulla legge di modifica costituzionale da almeno un quinto dei membri di una Camera, snaturando così anche la ratio della norma costituzionale prevista a tutela delle minoranze che non approvano il d.d.l. di revisione .

4.   NO ALLA DEMAGOGIA DEI COSTI DI FUNZIONAMENTO DELLE ISTITUZIONI

Il buon funzionamento delle istituzioni non è un problema di costi legati al numero di persone investite di cariche pubbliche (costi sui quali invece è giusto intervenire attraverso la legislazione ordinaria), bensì di equilibrio fra organi diversi, e di potenziamento, non di indebolimento, delle rappresentanze elettive. Limitare il numero di senatori a meno di un sesto di quello dei deputati (in realtà, diminuiscono i senatori ma la struttura del Senato rimane tale e quale); sopprimere tutte le Province, anche nelle Regioni più grandi, e costituire le Città metropolitane come enti eletti in secondo grado, anziché rivedere e razionalizzare le dimensioni territoriali di tutti gli enti, non garantisce la ricchezza e la vitalità del tessuto democratico e, quando si dice che “Verrebbero risparmiati 50 milioni di euro per ogni esercizio annuale del Senato”, si ricordi che si tratta della stessa cifra necessaria all'acquisto di un solo aereo F35.

5.   NO AD UNA FINTA SEMPLIFICAZIONE DEI PROCEDIMENTI LEGISLATIVI E AL CONTROLLO DEGLI ORGANI DI GARANZIA DA PARTE DEL GOVERNO

Con l’introduzione dei procedimenti legislativi differenziati a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato: leggi bicamerali, leggi monocamerali ma con possibilità di emendamenti da parte del Senato, differenziate a seconda che tali emendamenti possano essere respinti dalla Camera a maggioranza semplice o a maggioranza assoluta, vi sono concreti rischi di incertezze e conflitti. In assenza dell’indispensabile riequilibrio numerico dei componenti del Parlamento in seduta comune, in occasione dell’elezione degli organi di garanzia come il Presidente della Repubblica e una parte dell’organo di governo della Magistratura, queste delicate scelte ricadrebbero nella sfera di influenza dominante del Governo attraverso il controllo della propria maggioranza.

UN’ULTIMA RIFLESSIONE SUL FUTURO PER LA MINORANZA LINGUISTICA SARDA NELLA PROPOSTA DI REVISIONE COSTITUZIONALE

Anche la protezione dei gruppi minoritari è stata coinvolta dal progetto di riforma costituzionale RenziBoschi, specificatamente l'art. 10, che modifica l'art. 70 Cost., inserisce nell’elenco di materie su cui le due Camere potranno esprimersi collettivamente anche le “leggi di attuazione delle disposizioni concernenti la tutela delle minoranze linguistiche”. L’art. 30 del progetto di riforma, che modifica l'art. 117 Cost., ha, invece, aggiunto in capo alle Regioni la potestà legislativa in materia di rappresentanza delle minoranze linguistiche.

Secondo l’art. 10 del progetto di riforma costituzionale, il Senato delle Autonomie potrà esprimersi insieme alla Camera in materia di attuazione dell’art. 6 Cost., mentre secondo l’art. 30 le Regioni potranno legiferare in materia di rappresentanza delle minoranze linguistiche.

L'art. 70 e l'art. 117 Cost., se così modificati, non fanno riferimento al concetto di minoranze linguistiche storiche, riprendendo, invece, il dettato costituzionale, secondo cui “la Repubblica tutela le minoranze linguistiche” tout court.

Di primo acchito, la novità potrebbe interpretarsi come una manifestazione di apertura del legislatore costituzionale verso un tema che nel testo della Costituzione, oltre ad un cenno contenuto nella X disposizione transitoria con riguardo al Friuli Venezia Giulia, trova espressa consacrazione nei principi fondamentali (art.6 Cost.). Tuttavia, vanno evidenziati numerosi elementi di criticità, dovuti a difetti di stesura e di coordinamento, che rischiano in tutta evidenza di annebbiare e complicare il sistema di protezione che abbiamo delineato nelle nostre precedenti battaglie come poco soddisfacente ab origine anche in relazione alla legge 482/1999.

In primo luogo, ammesso che la rappresentanza delle minoranze linguistiche sia da intendere in seno alla sola Camera dei deputati, per quale motivo dovrebbero essere competenti le regioni a disporre su questo tema quando la materia elettorale per gli organi dello Stato viene espressamente ricondotta, dalla medesima disposizione in commento, alla potestà legislativa esclusiva dello Stato (rectius: della Camera dei deputati) (art. 117, 1° co., lett. f)?

In secondo luogo, qualora la rappresentanza delle minoranze linguistiche debba invece intendersi in seno (anche) al nuovo Senato, per quale motivo dovrebbero essere leggi regionali a dettare norme in questa materia, dato che le modalità di elezione dei senatori devono essere stabilite con legge (statale) da approvarsi da parte di entrambe le Camere (art. 57, 6° co. e art. 70, 1° co.)?

Da queste domande si evince il quadro caotico nel quale ci dovremmo districare per vedere salvaguardati i nostri  diritti e vedere la minoranza linguistica sarda effettivamente tutelata e protetta.

La lingua non può essere circoscritta a mero insieme di suoni, parole e regole grammaticali, ma deve essere considerata come il complesso di quei connotati storici, etnici e politici che caratterizzano una precisa realtà territoriale: cancellando la rappresentanza e la “garanzia ad esistere” della nostra lingua, cancellano parte della nostra identità culturale, e questo è inaccettabile.

La garanzia di rappresentanza nella vita pubblica e il diritto di partecipazione politica hanno un significato del tutto peculiare in relazione all’appartenenza alla minoranza linguistica sarda, che va ben oltre il mero desiderio di influenzare gli esiti del processo decisionale fondato sulla regola della maggioranza. Difatti, i meccanismi di partecipazione e di rappresentanza politica sono finalizzati a tutelare il nostro corredo culturale senza alterarne l’integrità e le peculiarità non solo fonetiche ma anche etniche. Quali saranno gli organi adibiti dove far sentire la nostra voce e far valere le garanzie costituzionalmente sancite all’articolo 6 della Costituzione? Dovremmo forse attendere che a tavolino modifichino il nostro Statuto?

CONCLUSIONI

Se in sede di consultazione referendaria dovesse prevalere la scelta favorevole alla proposta di riforma del governo Renzi la Sardegna sarebbe sottoposta ad un ridimensionamento radicale delle attuali competenze in alcuni settori strategici, subendo altresì un defraudamento molto più incisivo e deleterio rispetto alle altre regioni: avremmo a che fare con un monocameralismo imperfetto per una perfetta autocrazia!

La nostra condizione para-coloniale e la nostra dipendenza patogena interconnessa alla realtà geografica, socio-economica e demografica ci esporrebbe a conseguenze estreme.

Ciò detto dovrebbe costringerci ad una riflessione coscienziosa e responsabile sulla questione della nostra autodeterminazione. Anche in caso di fallimento della riforma costituzionale non dovrebbero venir meno le preoccupazioni che la congiuntura istituzionale odierna imprescindibilmente solleva. La nostra Isola corre un grande rischio a fortiori rimanendo in una posizione marginale, fragile e priva di potere contrattuale in uno Stato come quello italiano. Trattasi di un problema strutturale ineludibile che chiama in causa il concetto stesso di democrazia.

Occorre agire in modo capillare per lo più fuori dal Palazzo con la mobilitazione della società civile, coinvolgendo movimenti, comitati locali, associazioni per rendere nuovamente possibile un percorso autorevole che vedrebbe nuovamente il Partito Sardo d’Azione da “traghettato” a “traghettatore”.

Certo, è coscienzioso ammettere che in passato non abbiamo sicuramente fatto buon uso della nostra autonomia, tantomeno della nostra specialità, sempre contrabbandata da uomini e donne proni ai comandi romani che hanno anteposto il proprio posizionamento sociale ad interessi concreti di sviluppo del territorio, tuttavia, quello che non siamo riusciti a realizzare noi con la nostra azione, non deve essere necessariamente precluso alle generazioni future: votare Si o non votare affatto significherebbe chiudere le porte non solo indipendenza ma al futuro stesso dei sardi e della Sardegna.

Fortza Paris!

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