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Lo Sciopero del 5 maggio è contro chi pensa che la scuola non sia un luogo speciale

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Lo Sciopero del 5 maggio è contro la riforma della scuola 2015 del governo Renzi, ma soprattutto è contro chi pensa che la scuola non sia un luogo speciale, contro chi accusa i docenti di non produrre ricchezza economica, contro chi dimentica che a scuola si formano persone.

Perciò, è necessario parlare di scuola dal punto di vista dei fruitori, senza retorica sindacale, o vittimismo salariale.

Parlare con lo sguardo rivolto ai giovani di oggi, quelli silenziosi e "invisibili", che studiano, lavorano e si impegnano, spesso ben poco ripagati, ma senza per questo far troppo rumore o perdere la testa. È giusto e opportuno che il mondo della scuola esprima una chiara denuncia di scarsa attenzione della società civile e dello Stato verso l'insegnamento poiché “Senza un ascolto attento e un dialogo trasparente, sincero, rispettoso delle diverse posizioni di ciascuno non c’è buona scuola”.

Bisogna dunque protestare non per un proprio "tornaconto", ma per un'idea differente di scuola, che sia realmente democratica e pubblica, e soprattutto vicina alle esigenze delle persone”.

 “Se il lavoro dell’insegnante fosse quello di «erogare» lezioni, già il numero degli alunni per classe non conterebbe. Caricheremmo le nostre lezioni sulla Rete e ci risparmieremmo l’odore della classe”.

Se teniamo in piedi il sistema “analogico” è perché siamo convinti che insegnare sia una relazione attuale: spazio e tempo condivisi nel dinamismo della vita e delle vite.

In classi fatiscenti o belle, sovraffollate o ordinate, abbiamo sempre tre compiti dettati dalla professione: amore per ciò che si insegna, amore per il chi a cui si insegna, amore per il come si insegna.

Ma perché il lavoro in classe sia efficace occorre essere messi nelle condizioni di poter curare queste tre dimensioni: avere troppi studenti, per esempio, mina l’efficacia del lavoro. 15 è considerato il numero ideale per classe. Con tutti i precari in cerca di ruolo è proprio necessario mortificare insegnanti già oberati e stanchi, invece di investire in modo coraggioso su nuove leve?
Inoltre, in una cultura dal sapere sempre più reticolare, collaborativa, induttiva, è necessario rinnovare la scuola ancora basata quasi del tutto su processi di apprendimento frontali e generici, individualistici, deduttivi e ripetitivi, inefficaci.

Al contrario le attenzioni della “buona scuola” non riguardano l’innovazione della didattica ma sono state dedicate al calcolo di quanti soldi percepirebbero i docenti considerati “migliori” sulla scorta di, non meglio precisato merito, che verrà valutato da una commissione costituita da: Dirigente Scolastico, due docenti (scelti dal Dirigente) e due genitori (magari buoni amici del dirigente).

Ma non è questo l’aspetto più rilevante della questione.

Il fatto è che il concetto stesso di “carriera” viene abolito, e sostituito da una competizione che procede di tre anni in tre anni.

Chi, dopo tre anni, riceve l’aumento di stipendio, (pari a 60,00 euro lordi – sempre e solo se ci sarà disponibilità di fondi nelle casse dello Stato) nei successivi tre potrebbe vederselo negato, perché scavalcato da qualcun altro e relegato nel 33% peggiore dell’istituto.

È facile intuire che le fonti di tale concezione della carriera stanno nel management d’impresa dell’epoca neoliberista e, senza dubbio, nel modello della competizione tra scuole fondata sulla performance. Il sistema di incentivi immaginato dal governo è infatti molto simile al sistema vigente tra i venditori porta a porta di venditori delle aspirapolveri di nuova generazione Kirby .

La competizione per garantire più impegno e produttività al proprio istituto dovrebbe costituire l’unica condizione di progressione economica, in alternativa non soltanto all’anzianità di servizio, ma anche alla differenziazione per livelli diversi della carriera degli insegnanti (com’è ad es. in Francia e in altri paesi).

Si tratta, senza dubbio, della celebrazione dell’”homo oeconomicus”.

Si presuppone che gli insegnanti siano degli “agenti razionali” mossi esclusivamente dal movente dell’incentivo al guadagno. Gli estensori del documento sulla “buona scuola” lo affermano chiaramente quando dicono che uno degli obiettivi del piano è di determinare una maggiore mobilità degli insegnanti tra i diversi istituti. Infatti, si dice che molti tenderebbero a trasferirsi in quegli istituti in cui la media è più bassa e nella quale c’è quindi maggiore probabilità di finire nel 66% di “premiati”.

In questo modo, si migliorerebbe il livello qualitativo delle scuole (secondo un sistema di vasi comunicanti per cui poi, come accade per il meccanismo dei prezzi, il livello delle scuole dovrebbe tendere verso un livello omogeneo di qualità).

In questo senso, il modello di “carriera” immaginato dalla “buona scuola”, si presenta come un’applicazione del modello della “scelta razionale”, ideato dalla microeconomia liberista della scuola di Chicago e poi applicato ad ambiti molto lontani dall’economia.

C’è da attendersi che il reale effetto del sistema sarebbe molto diverso dalle premesse microeconomiche della sua formulazione. Innanzitutto, una mobilità forzosa condurrebbe a mettere in discussione la continuità didattica nelle classi, ed è tutt’altro che garantito che tale mobilità verrebbe effettivamente a realizzarsi. Infatti, le ragioni per cui un insegnante sceglie una certa scuola, oggi, sono molto lontane da considerazioni di carattere economico: la prossimità al luogo di abitazione innanzitutto, la sicurezza percepita nel clima interno dell’istituzione, lo stato delle relazioni con il capo d’istituto, rapporti affettivi e di amicizia, l’attaccamento ai propri studenti e la continuità didattica.

Inoltre, la natura del meccanismo immaginato porta con sé un fattore di tipo simbolico che sormonta immensamente l’aspetto di incentivazione puramente economica su cui insiste il governo Renzi. Usando il termine “simbolico”, intendo l’aspetto simbolico delle relazioni di potere sociale, in quanto inestricabilmente connesso ai rapporti di tipo materiale (così come è trattato da molti antropologi, psicanalisti, teorici della politica e sociologi, primo fra tutti Bourdieu).

Il punto è che questa suddivisione tra il 66% e il 33% è innanzitutto una divisione in “buoni” e “cattivi”, che presuppone l’idea che per gli uni l’essere premiati costituisca una gratificazione e una motivazione all’impegno e, per gli altri, la punizione debba essere una molla per ricollocarsi attraverso la mobilità tra istituti o migliorarsi professionalmente.

Ma siamo effettivamente sicuri che accada veramente questo?

La “carriera” va intesa, secondo me, come una serie di passaggi che scandiscono progressivamente la biografia dell’insegnante e consentono di rendere prevedibile l’avvenire. La “carriera” basata sull’anzianità è un istituto storicamente determinato, quindi altamente problematico, su cui si è tuttavia fondata la possibilità da parte dei docenti di costruire una “narrazione” della propria condizione lavorativa. Di conseguenza, la condizione di possibilità della costruzione di una identità, di un sistema di valori, professionali ma anche in riferimento alla sfera familiare e alla partecipazione alla sfera pubblica, in ultima istanza un “senso” di quel che fanno.

Tuttavia non mi sono mai sottratta e non intendo sottrarmi al giudizio di una commissione, ben sapendo di essere quotidianamente giudicata innanzitutto dai miei alunni e dalle rispettive famiglie. Così come non intendo sottrarmi ad un’autocritica che coraggiosamente ciascun docente dovrebbe avviare personalmente e nei confronti di quei colleghi – una strettissima minoranza - che ben poco hanno a che vedere con l'insegnamento (almeno quello degno di tale nome) a discapito di quelle maestre/i, professoresse e professori che prima ancora di una professione, considerano l'insegnamento una missione, un servizio , certo impagabile, infatti non verrà mai pagato. 

Il modello contrattuale degli insegnanti della “buona scuola” appare in definitiva come l’istituzionalizzazione, all’interno del pubblico impiego, degli effetti disgregatori della nuova economia della flessibilità del lavoro. Fermo restando che oltre ad essere deprimente, sarebbe anche portatore di una maggiore inefficienza della scuola, non ci si può che domandare: “A chi giova”? 

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