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L’unanimismo che non ammette “distinzioni” è un dogma solo per i partiti totalitari e le dittature

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L’epilogo di forzato unanimismo che ha spesso concluso alcuni appuntamenti della politica, ivi compresa la nostra, ha avuto il solo effetto dell’immobilismo, ha valorizzato sistematicamente i mediocri e bloccato il ricambio della classe dirigente, ha incubato stanchezza e disaffezione, ha, in definitiva, procrastinato soltanto - dilatandola patologicamente nel tempo - la risoluzione dei problemi, il più delle volte pregiudicandola pesantemente, assieme al logoramento dei rapporti politici ed umani.

Eppure, in un partito che non sia un partito-azienda o un partito-caserma, le “distinzioni” determinate da idee e da persone differenti, dovrebbero essere un fatto normale, ed anzi auspicabile, oltre che una buona prassi, poiché rappresentano null’altro che un segno di vitalità, ed anche costituiscono i presupposti per un confronto fra le parti, realmente costruttivo e fecondo.

Le “distinzioni” nella politica, non possono, insomma, essere intese in termini riduttivi come mera ripartizione di spazi privi di identità e di fermento dialettico, che in ogni caso non potrebbero, per definizione, essere omogenei.

Piuttosto, nella traduzione reale, ponderata ed onesta del concetto, ci si dovrebbe riferire a componenti costitutivi e complementari che una classe dirigente all'altezza delle situazioni, e davvero rappresentativa, sia capace di mettere in relazione, ben coniugando il rapporto fra unità e differenza, fra il tutto e una parte, fra unità e divisione.

Questo rapporto infatti definisce innanzitutto una dimensione costitutiva della politica di un partito, come di quella dello Stato, il quale, rispetto ai partiti, sta in una relazione analoga a quella che sussiste fra un partito e le sue “distinzioni” interne.

In definitiva, lo Stato, per come lo vediamo tutti, è un “intero” - ed appunto ne viene richiamata la sua indivisibilità a ogni piè sospinto - ma esso, proprio come i partiti, rappresenta il prevalere delle logiche dell´unità in relazione alle proprie “distinzioni” interne.

In questo caso, le “distinzioni” non sono ammesse o sono mal tollerate, giacché vanno a rescindere le radici del “tutto”, cioè dell’unità, trasformando l’unanimismo e l´unitarismo in una sorta di dogma, di regola e prassi consolidata, fino a che non hanno luogo le guerre civili, o le secessioni o, nel caso dei partiti, le scissioni di cui noi, in particolare, abbiamo triste memoria.

In entrambi i casi, però, sia per gli stati che per i partiti totalitari che non concepiscono e neppure tollerano "differenze", il risultato è che l’entità “unitaria” muore – è una questione di tempo - o meglio si moltiplica in diverse unità separate.

Ora però, divenire “circoli chiusi” che, per definizione, non hanno la forza di emendarsi, tendendo a diventare, pian piano, inconcludenti, monocratici ed autoreferenziali, è l’antitesi del nostro essere Partito Sardo d’Azione, delle nostre ragioni, e degli obiettivi politici dell’Ideologia sardista, perché è evidente a tutti che proprio l´entità “unitaria”, per esempio nel caso di un partito come il nostro, ma anche in quello degli stati, non sia tanto compatta da non essere attraversata da differenze anche organizzate, che pretendono di essere riconosciute come interne e funzionali all´unità stessa, sebbene distinte.

Ovviamente, tale “caratterizzazione”, intesa come distinzione e differenziazione all’interno del Partito, credo non debba spaventare, tantomeno, procurare alcuna preoccupazione a nessuno.

Fatti salvi, ovviamente, i mediocri e gli incapaci, coloro i quali hanno occupato ruoli non per merito ma per cooptazione, per chiamata diretta in cambio della garanzia di non nuocere e di tener l’equilibrio, lo status quo, dimostrando soltanto capacità nel raccogliere ma non nel seminare.

Questo processo di rottura dell’unanimismo forzato sarà dunque inevitabile, oltre che auspicabile, e contribuirà a far chiarezza sul fatto che il nostro sia ancora e davvero un partito politico e “di Azione” e non un´azienda o una caserma, come ho già detto.

Con buona pace dei cerchiobottisti, di quegli anfibi della politica cristallizzata ed inconcludente, la politica dello stallo e dell’attesa, dell’indipendentismo a bagnomaria, della deresponsabilizzazione e del capro espiatorio, di quella politica amica di tutti e di nessuno che oramai è scoperta, ed ha fatto il suo tempo come loro, i novelli boscaioli che per far legna aspettano che l’albero cada.

In conclusione, la politica – in special modo quella sardista - ha a che fare con la pluralità delle parti, il portato di idee differenti e di differenti persone, e da queste componenti imprescindibili ne trae giovamento e beneficio solo allorquando è capace di ricercarne la sintesi nel rispetto delle differenti opinioni.

Quindi, se la politica, come lo stato deve articolarsi in partiti per essere democratica e veramente rappresentativa, così, all´interno di uno stesso partito, se questo non è una proprietà privata, e non vuole assumerne gli aspetti, non possono non manifestarsi differenze di opinione e di accenti; non possono non operare interessi materiali distinti; non possono non esistere, insomma, personalità diverse per stili, carattere, ambizioni, proposizioni, che a loro volta si circondano di altre persone che queste opinioni, questi accenti, questi interessi materiali distinti, promuovono od emendano, e che trovano utile e pure necessario - e per nulla traumatico - rompere perfino il dogma dell’unanimismo di facciata, che è la morte annunciata del reale confronto democratico, dell’elaborazione delle nuove come delle vecchie idee e, dunque, anche di un partito politico ancorché antico e glorioso come il nostro.

Fortza Paris!!

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