Senza un nuovo Statuto per la Sardegna nessuno sviluppo è possibile

  • Stampa

Da decenni continuiamo a sostenere che il nostro Statuto, nato zoppo già nel 1948, è oggi un soggetto decrepito, incapace di far fronte alle sfide del nostro tempo.

E’ allora inutile ripercorrere le tappe della grave sconfitta dei sardi, che hanno visto lo Statuto cambiato per iniziativa dei poteri romani, e mai per impulso fondato su una diffusa sensibilità costituente.

Basti dire che ogni classe politica si è baloccata con progetti di riforma di volta in volta palesemente velleitari o, al contrario, su aspetti di dettaglio incapaci di toccare interessi indicibili.

Esiste un interesse bipartisan, sia in Sardegna che a Roma, a far sì che la nostra specialità esista solo nella carta.

Una Sardegna competitiva darebbe fastidio a troppi centri di potere che invece oggi lucrano sulla nostra pelle.

Senza poteri adeguati, sorretti da risorse consequenziali, l’autonomia si riduce oggi a un patetico fardello indice di subalternità.

Al di là delle grandi sparate, che mai possono mancare nelle dichiarazioni di insediamento delle varie Giunte regionali, si è assistito a vergognose farse.

Una per tutte il dibattito sulla Costituente, che è servito a ritardare e quindi a rendere impossibile qualunque seria riforma. Anziché giocare la vera partita della riforma della parte costituzionale dello Statuto, in tempi certi e senza divisioni di parte, si sono scelte due vie complementari: o ripiegare sulla scrittura della Legge statutaria (cioè, più banalmente, su una legge ordinaria che certifica e legittima questo presidenzialismo cialtrone, rafforzandone se possibile gli esiti autoritari), o non far nulla (rimandando la gestione della questione sarda a leggine di settore a alla gestione delle emergenze).

Oggi abbiamo tre livelli di intervento.

La parte costituzionale dello Statuto, che ha bisogno della doppia lettura parlamentare e perciò è gravata di procedure molto complesse e di tempi dilatati: qui dovremmo decidere chi siamo, cosa vogliamo e in che modo vogliamo rapportarci all’Italia e all’Europa.

Il Titolo III, vale a dire la parte relativa ai rapporti economici e agli strumenti per creare sviluppo, che ha bisogno di una lettura parlamentare semplice: qui dovremmo decidere in che modo vogliamo regolare i rapporti con Roma, se e quali leve fiscali utilizzare, e quale fiscalità di compensazione intendiamo prefigurare.

Infine, la Legge statutaria, che regola sia i rapporti tra Giunta e Consiglio, sia la legge elettorale, sia la disciplina del conflitto di interessi: questo passaggio è impensabile senza un quadro generale di riforma, che parta anzitutto dalla base (la parte costituzionale), determini se vogliamo questo presidenzialismo, se lo vogliamo attenuare o se addirittura vogliamo tornare al sistema precedente.

A grandi linee, si tratta di un progetto che una seria Giunta e un serio Consiglio avrebbero dovuto impostare già nei primi cento giorni.

Ma la priorità di questa maggioranza non sembra proprio essere la difesa e la valorizzazione della specialità, ma la sua mortificazione: basterebbe in proposito ricordare le scellerate posizioni anti-identitarie in tema di lingua e cultura, il fallimento (annunciato) della politica dei trasporti, la rinuncia a rivendicare la fiscalità di compensazione di cui la zona franca è importante tassello.

Una seria politica identitaria e costituente non avrebbe mai permesso a una Giunta di professori di creare questo immobilismo, di nominare assessori incompetenti, di tenere profili succursalisti in temi emergenti come le servitù militari.

Di Statuto si è dibattuto per decenni, le posizioni sono chiare, basterebbe porre a confronto le varie filosofie di riforma a procedere, dopo quasi settant’anni, a ricontrattare con l’Italia e la UE il patto costituzionale dei sardi.

Gli stessi indipendentisti tacciono, perché qui si tratterebbe di passare dalla retorica dei princìpi alla dura realtà dei fatti e delle procedure.

E’ inutile baloccarsi e dissertare sugli altrui referendum in tema di indipendenza se poi non siamo neppure capaci di aggiornare la specialità, che è lontana anni luce da qualsiasi prospettiva indipendentista.

I candidati sardisti alla prossima tornata elettorale dovrebbero sottoscrivere con gli elettori un patto di ferro: se entro cento giorni non saranno in grado di imporre ai lavori consiliari la proposta cantierabile di un nuovo Statuto, si impegnano a dimettersi con ignominia.

Perché senza nuovo Statuto non si possono affrontare le precondizioni dello sviluppo: energia, trasporti, fiscalità e dimensione etnico-nazionalitaria.

Chi non aderisce a questa prospettiva vuole, evidentemente avendone tornaconto, lasciare le cose come sono.