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Chiediamoci cosa possiamo fare noi ora prima di criticare gli altri

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Viviamo uno dei momenti più bui e drammatici della nostra storia contemporanea, e questo dramma è reso plasticamente evidente dalla scarsità del lavoro e dalla difficoltà di apprestare misure efficienti ed efficaci per porvi rimedio.

Occorrerebbe forse andare indietro all'immediato dopoguerra, prima del cosiddetto boom economico, per riscontrare in seno alla società italiana un'analoga situazione di impoverimento diffuso, sbandamento e incertezza sul futuro.

La differenza è però che stavolta non siamo appena usciti da un conflitto e non pare esserci all'orizzonte alcun Piano Marshall che consenta di nutrire speranze per un domani migliore e di intravedere una luce al fondo del tunnel di questa crisi che pare infinita.

Da pubblico amministratore posso portare la mia testimonianza.

La testimonianza di chi, negli enti locali, si trova quotidianamente in prima linea a combattere direttamente il disagio e le lacerazioni del tessuto sociale, delle famiglie e dei cittadini.

I Comuni sono infatti percepiti come l'interlocutore più vicino e immediato per la soluzione dei problemi. Purtroppo, però, sono anche gli enti con minori risorse e con margini di manovra sempre più ridotti per poter dare risposte concrete al disagio che viene portato, e a volte urlato, nelle nostre sedi istituzionali.

Tra vincoli di bilancio sempre più soffocanti e risorse finanziarie che, sebbene già da prima insufficienti, di anno in anno vengono ulteriormente ridotte, i Comuni non possono assumersi l'onere di fare da ammortizzatori sociali a quella che è una vera e propria tragedia.

E questo non certo per cattiva volontà, ma per mancanza di strumenti.

E’ una questione di dignità e di libertà.

E’ stato tradito il patto costituzionale che prevedeva e oggi impone più che mai la tutela e la promozione dei diritti fondamentali. Perché è vuota retorica enunciare i principi costituzionali se poi questi vengono calpestati dalla disoccupazione.

Il problema è certamente sistemico, e di certo riguarda il contesto della nostra modernità occidentale. Ma non posso fare a meno di far notare che se in Europa e nel Continente la crisi è vissuta con grave preoccupazione, in Sardegna la situazione è ancora più drammatica, perché le cause del dislivello sono strutturali.

Da decenni assistiamo alla vuota retorica dell’insularità che da handicap deve diventare risorsa.

Da decenni sopportiamo prediche sulla incapacità dei sardi di fare sistema.

Da decenni ci illudiamo che ricette forse utili in ambienti nord-europei possano essere la soluzione della questione nazionale sarda.

Ma come amministratore sardista non intendo più tollerare la cultura del piagnisteo, il voler sempre cercare all’esterno la causa efficiente dei nostri mali.

Ci sarebbero, queste cause,  e molti di noi sono certo che le saprebbero elencare.

E sono certo che, presi singolarmente, gli elementi della nostra crisi strutturale sono ben chiari e noti.

Il problema è che per creare occupazione stabile e produttiva in Sardegna occorre una visione d’insieme.

Esiste una questione nazionale sarda che si riassume in quattro gambe tarlate che reggono una superficie traballante.

Un tavolo unitario di questioni che non si possono affrontare separatamente.

Il lavoro buono consegue dalla risoluzione di quattro precondizioni strutturali:

a)   la questione della fiscalità di compensazione, che può arrivare a prevedere o la zona franca integrale di produzione o soluzioni omologhe coerenti con la disciplina comunitaria, ma in ogni caso finalizzata a creare una situazione di massima attrattività anche per i capitali stranieri;

b)   la questione della autonomia energetica: dato che siamo l’unica regione senza il metano, abbiamo diritto di poter applicare misure di abbattimento del costo energetico per le famiglie e per le imprese senza incappare in pretestuosi parametri classificati come aiuti di Stato;

c)   la questione della continuità territoriale persone e merci, che dovrebbe essere garantita a livello comunitario, in quanto ai sardi è sinora negato il diritto alla coesione sociale e alla mobilità, con consequenziale distorsione della concorrenza leale;

d)   la questione etnico-linguistica, oggi impostata con una visione statalista che non riconosce la Sardegna come minoranza linguistica, e blocca importanti progetti nazionalitari a iniziare dalla lingua ufficiale nazionale sarda per finire con importanti poteri e agevolazioni anche fiscali.

Tutto questo fascio di problemi, vera e propria precondizione per impostare una seria alternativa politica del lavoro, presuppone a monte che si dia finalmente luogo alla riforma globale della ordinaria specialità che ha finora permesso ai poteri forti e ai succursalisti sardi di tenere in scacco una regione potenzialmente ricca.

Senza una profonda rivisitazione del patto costituzionale con l’Italia, in ipotesi da condurre anche con un patto bilaterale, non si va da nessuna parte.

Fiscalità, energia, continuità territoriale e status di minoranza derivano tutti da una riscrittura dello Statuto come minimo in chiave federale.

Ma oggi si parla a malapena di legge statutaria, per regolare la legge elettorale  e per continuare a legittimare il mostro antidemocratico di questo presidenzialismo.

Noi sardi abbiamo rinunciato a darci uno Statuto che, nella sua parte costituzionale, riconosca nuovi e più incisivi poteri che possono sbloccare e attrarre risorse economiche.

Ci si balocca in sterili progetti non cantierabili, e nel frattempo, anziché riscrivere il n uovo patto, si perde tempo.

Un serio governo regionale non succube dei poteri romani avrebbe entro i primi cento giorni avviato un processo costituente con la chiamata degli stati generali dei sardi e avrebbe imposto a Roma la discussione sul nuovo Statuto.

E invece, complice la difficoltà di procedere con la doppia lettura parlamentare, si lascia in vita uno Statuto fragile e vecchio, che Lussu definiva il gatto anziché il leone.

Qualsiasi politica del lavoro fuori da questo quadro organico, anche se condotta con buona volontà, si riduce a un intervento-tampone, emergenziale, privo di respiro.

Se non si elimina il gap della insularità, e non si procede ad acquisire poteri per decidere da noi il nostro destino, qualunque progetto si arena.

Prima di criticare gli altri, chiediamoci cosa possiamo fare noi ora.

Gli esempi della catalogna e della Scozia insegnano che solo con una grande visione nazionale sarda è possibile affrancarsi dal centralismo romano.

Non possiamo attendere che la riforma del titolo V accentri sullo Stato competenze regionali. Non possiamo attendere che il Renzi di turno decida quali sussidi siano concessi ai sudditi sardi.

Non possiamo più attendere che l’Uomo della Provvidenza arrivi e con i suoi poteri taumaturgici risolva la questione nazionale sarda.

In definitiva, non è più tempo di dividersi.

I numeri della disoccupazione nascondono infatti la dimensione personale di questo dramma, la disperazione delle famiglie, l'incertezza del domani per i giovani ma anche per chi giovane non è più. Intere generazioni che chiedono risposte e certezze, per non essere costrette a emigrare o a patire le umiliazioni della povertà.

Sono per questo convinto che occorra uno sforzo straordinario da parte di ogni componente della nostra società, dalla politica all'economia, dai sindacati alle rappresentanze professionali, per ricercare assieme le soluzioni utili al superamento di questa situazione ormai insostenibile.

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