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La speranza è nella storia … Lettera a Titino Melis

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Caro onorevole Melis,

ho appena ricevuto e appena finito di leggere, non senza emozione, la sua lettera del 10.XII.1975 a proposito di una mia (certamente e assolutamente inadeguata) nota sul Camillo Bellieni. Le devo innanzi tutto una spiegazione sul testo del mio pezzo: in parentesi (seconda colonna) avevo scritto e dettato: “eppure col suo libretto su Attilio Deffenu si era mostrato, tra i sardisti, il più vicino a capire questa verità” (il carattere dipendente della borghesia sarda). Cito a memoria perché Le scrivo nel Consiglio comunale dove ho ricevuto la Sua lettera e dove non ho davanti il giornale che aveva chiesto e pubblicato la mia nota con alcuni rifusi trascurabili ma anche con un grave errore di stampa: dove io avevo dettato “eppure etc.” il giornale ha scritto “neppure”, sbilanciando e anzi rovesciando il mio giudi­zio. Amici giornalisti ai quali ho subito segnalato l’errore (Vindice Ribichesu, Enrico Clemente e Giuseppe Podda) mi hanno tranquillizzato circa la trasparenza dell’errore. Dessanay, al quale era sfuggito, ha commentato che anche questa doveva essere considerata una delle molte “disgrazie” di Bellieni. Non ho provveduto ad una precisazione sul giornale, perchè mi ripugnano quelli che hanno il gusto “tirrioso” di credere le cose che scrivono tanto importanti da meritare la messa a punto anche dei refusi. Ma in questo caso avrei fatto bene ad esigere una precisazione; avrei quanto meno dovuto telefonare subito a Lei per avvertirLa e per evitare così di distoglierLa dalla scrittura delle sue memorie, che considero cosa ben più importante di quanto Ella stessa, forse, non sia disposto a credere.

Lei ricorderà che sono stato io stesso ad invitarla a questa fatica (in sua presenza e anche in Sua assenza ho segnalato agli amici del servizio studi e ricerche del Consiglio regionale l’opportunità di aiutarLa con i mezzi della tecnologia moderna a raccogliere le Sue memorie, che, Le ripeto, serviranno a chiari­re molte cose della storia del PSd’ A e, per alcuni decenni, anche della storia politica della Sardegna).

Dunque, mi creda, non ho inteso “parlare male di Bellieni” (e tanto meno darLe un dispiacere). Peraltro il giudizio che ho espresso in quella “sfortunata” parentesi mi sembrava far torto a Fancello, che forse, più di Bellieni e dello stesso Lussu, avvertiva l’esigenza di collegare la lotta del proletariato sardo alla solidarietà della lotta delle altre classi oppresse italiane ed europee. Ma non ho gli elementi per sostenere con serietà questa ipotesi, che affaccio più per sentito dire che per una conoscenza adeguata della biografia e degli scritti di Fancello. Su questo punto ritengo che sarebbe quant’altri mai illuminante il Suo giudizio.

Devo anche aggiungere che ho ricevuto la notizia della scomparsa di Bellieni mentre ero a letto con una brutta influenza e con la febbre alta e dunque che mi è costata fatica anche la scrittura di quelle poche righe e che, soltanto in considerazione della opportunità che la scomparsa di Bellieni fosse colta per ricordarne la figura, ho accettato di far pubblicare. Voglio dire che sono persuaso della necessità che la figura e l’opera di Bellieni venga studiata e fatta conoscere in modi ben più seri di quanto io non abbia saputo e potuto fare in occasione della sua scomparsa. Bellieni – e in ciò sono assolutamente d’accordo con Lei – è stato un protagonista della vita politica e culturale della nostra isola. Al di là dell’ incidente tipografico (o di tra­smissione telegrafica) del quale ho parlato, mi sono limitato nella mia nota a sollevare (male certamente, e con eccessivo schematismo, certamente) una questione che potrebbe formare oggetto di attenzione (dovrebbe) da parte del biografo di Bellieni e di chiunque voglia studiare con serietà scientifica la storia del PSd’ A e del movimento sardista in generale. Come Lei “non credo alle enunciazioni facili quanto inutili”. Credo anch‘io che Bellieni avesse rinunciato “ai facili rataplan, senza aver voluto mai cariche e vivendo del modesto stipendio e della modestissima pensione”. Né a me fa velo, nella valutazione degli uomini, la carica più o meno importante che, a torto o a ragione, ricoprono. Gli uomini che ho più ammirato nella mia vita, i miei veri maestri, voglio dire erano e sono persone lontane dal potere, ma capaci di rivelarmi significati profondi della vita (pastori, contadini, filosofi, scrittori, poeti, di rado uomini politici). Avevo per Bellieni più che grande rispetto: con i giovani studenti sardisti a Sassari, nell’emiciclo Garibaldi, lo difendevamo anche da irrisioni che nulla avevano a che vedere con la politica e con la cultura. E lo difendevamo per quel che Bellieni era stato nella storia del sardismo, qualche volta fino a punto di farla a botte.

Ma al di là del rispetto, Bellieni meritava e merita altro: merita che si parli con rigore critico di quel che ha fatto e scritto perché aveva posto problemi. Poneva problemi importanti anche quando cercava di impedire una chiara scelta sardista su problema istituzionale. Ho scritto che gli studenti barbaricini d Sassari (io ero un ragazzo di 15-18 anni) ci sentivamo interpretati meglio da Puggioni che da lui, non perché il mio affetto per il primo fosse maggiore che per il secondo (Puggioni era anzi più scostante e più aristocratico, mentre Bellieni era sempre più aperto alla discussione anche coi ragazzi). Ma Puggioni nei suoi discorsi sapeva fare riferimento alle nostre esperienze “paesane”, sapeva saldare la sua “cultura colta” e raffinata (per certi versi persino “decadentistica”, ma l’ho capito più tardi) alle nostre culture di provenienza, orali, rustiche, pastorali, risentite e così via. Avrei anche approfondito questo discorso – se, lo ripeto, non fossi stato in quel momento febbricitante – fino, parlare del suo sardismo e del rapporto che stabiliva con i giovani. Non è un argomento facile, anche perché ha più implicazioni psicologiche che politiche.

Bellieni mi appariva una sorta di “sardista continentale” Perché? Perché il 25 luglio, con la caduta del fascismo, in me era caduta anche tutta la cultura italiana “scolastica”, orribilmente orpellata di fascismo; e avevo, di colpo, scoperto che la mia identità culturale era un’altra, quella di un giovane sarde barbaricino-logudorese (ma più barbaricino che logudorese). La scuola fascista mi aveva insegnato che la cultura sarda (di mie padre, dei miei fratelli, dei miei parenti, dei miei coetanei di Bitti e di Oschiri che non avevano avuto come me il privilegio di studiare) era soltanto “ignoranza”, “barbarie”, merda. L’antifascismo mi riconciliava con un mondo al quale avevo voltate le spalle e che era il mio mondo, la mia vera “cultura” (nel seno so antropologico del termine, che allora vivevo ma non sapevo analizzare). Mi fossi imbattuto subito negli scritti di Antonio Gramsci non ancora pubblicati, o in qualche comunista che avesse avuto la sua grande carica sardista, mi sarei iscritto al partito comunista. Ma appunto Gramsci era allora soltanto un nome glorioso e qualche brano. E poi – anzi, soprattutto – non era conosciuto il suo pensiero tra la gente rustica con la quale volevo essere in armonia. Il caso è decisivo, soprattutto nelle scelte giovanili. E il mio era il caso di uno che aveva scoperto di colpo la democrazia: una democrazia che allora era per me lo stare dalla parte dalla quale stava la mia gente, gente che lavorava, con umiltà, ma anche con dignità, o almeno con una irriducibile rivendicazione della propria dignità. Ed era gente sardista. Il sardismo era una scelta “emotiva”. Ora questo termine viene usato normalmente con un significato riduttivo; troppo spesso però si trascura il valore delle emozioni, in nome di una “razionalità” irragionevole.

Che cosa mancò ai dirigenti sardisti? Mancò la forza intellettuale – non certamente quella morale – necessaria per trasformare un’ondata emotiva in un partito di massa. Mancò un’analisi delle ragioni (delle motivazioni razionalizzabili) di quell’emozione mia e delle migliaia e migliaia di giovani che allora avevano fatto la scelta sardista.

Noi eravamo alla ricerca di un leader carismatico. Lussu – che poteva forse porsi come tale – ci deluse profondamente quando tenne il suo primo discorso a Sassari in Piazza Tola. Egli gettò secchiate d’acqua gelida sul fuoco del nostro sardismo genericamente separatista. Non perciò cessammo di essere sardisti. Ma avremmo avuto bisogno di un “partito carismatico” (l’organizzazione come carisma è stata studiata attentamente dalla sociologia dei partiti politici). Lussu non voleva, non volle essere capo carismatico di un popolo. Perché? Me lo domandavo in occasione della sua morte nel corso di una conversazione con Vindice Ribichesu, che ne riferì su Tuttoquotidiano. Non era – dissi in quella circostanza – uomo tanto piccolo da scatenare processi identificativi di massa, ma non fu neppure uomo tanto grande da offrire uno sbocco ad un grande movimento di massa.

È vero che Velio Spano al suo ritorno dall’esilio, quando i comunisti sardi gli descrissero gli entusiasmi che allora suscitava il PSd’ A, disse: “aspettate che rientri Lussu in Sardegna e il PSd’A si assottiglierà”. È vero? In quella conversazione con Ribichesu – non me la sentivo di formalizzare i miei giudizi, perciò lasciai a Ribichesu il compito di metterli per iscritto – io espressi anche il convincimento che Gramsci – a differenza di Lussu – non avrebbe commesso l’errore di provocare una scissione del PSd’A. Ma è un’opinione ovviamente indimostrabile.

Sono d’accordo con Lei nel considerare Lussu responsabile della scissione; non ascrissi allora e non ascrivo oggi a suo merito il fatto di averla provocata. Non ascrivo però a merito degli altri dirigenti rimasti nel PSd’A il fatto di non averla saputa evitare. lo so che questo è stato l’episodio più drammatico della sua vita di uomo politico. L’episodio che mi racconta nella Sua lettera (e che mi aveva già raccontato con parole non diverse in automobile, alla presenza di Lilliu, alcuni mesi fa, in viaggio verso Iglesias) corrisponde all’idea che mi son fatto di Lussu. lo non l‘ho conosciuto personalmente nella vita privata. Ma ho avuto 25 anni or sono occasione di leggere qualcosa che non avrei dovuto leggere (perché si trattava di corrispondenza privata che doveva essere bruciata e che poi fu effettivamente bruciata). Da quella lettura ebbi la conferma di quel che sospettavo (e che molti fra quelli rimasti nel PSd’A allora denunciavano) e cioè che Lussu avesse programmato già da qualche anno la sua uscita dal PSd’A e il suo ingresso nel Partito socialista. Quel che allora mi scandalizzò, oggi non mi scandalizza. Tuttavia continuerà a gettare un’ombra pesante sulla pur grande-figura di quest’uomo, l’unico al quale (forse) si sia offerta l’occasione storica di dare alla Sardegna (e, quando scrivo Sardegna penso innanzitutto alle classi oppresse, ma anche al popolo sardo nel suo insieme oppresso, perché ci sono anche all’interno dell’Isola i sardi oppressori, o meglio estensioni di oppressori esterni) una guida politica rivoluzionaria e dunque unitaria. Ho abbandonato gli schemi di giudizio moralistici (dai quali, me lo consenta, Ella non riesce ad uscire; ma non pretendo che li metta da parte, perché so bene quanto bisogno ci sia di uomini come Lei). E dunque nel mio giudizio su Lussu cerco di attenermi alla valutazione storico-politica, approdando alla conclusione che egli non aveva, (ma non si può far torto ad un uomo del fatto di non avere quel che non ha, specialmente nel caso di un uomo che aveva tutte le cose che Lussu aveva) le qualità di un grande capo rivoluzionario. Gli mancava la virtù essenziale del vero genio, che è la pazienza e ancora la pazienza e la fiducia nella organizzazione delle masse che è (l’organizzazione) il vero genio politico del nostro tempo come sosteneva Togliatti. Il fatto che Lussu appena rientrato in Sardegna abbia subito un trauma incontrando uomini che, come Mastino, Oggiano, Puggioni, Sale, Cossiga, Bua, Spanedda, Dore, e lo stesso Bellieni, non erano in grado di condividere le sue scelte di classe perché non avevano l’esperienza internazionale ed europea della lotta al fascismo, forse, spiega, in termini non moralistici, la sua decisione di porre fine alla propria milizia nelle angustie del PSd’A per ricollegarsi ai dirigenti antifascisti nazionali. Certo egli come risulta ancora da quel che le disse nel colloquio che mi riferisce nella sua lettera – aveva previsto esattamente la parabola del PSd’A. Quel che stupisce è il fatto che egli si sia piegato così rapidamente alla prospettiva di una carriera parlamentare sia pure prestigiosa e altamente meritoria. Aveva anche previsto tempestivamente il riflusso del regionalismo italiano e ne trasse tempestivamente le necessarie conseguenze politiche (non comprese al momento giusto) proponendo l’estensione alla Sardegna dello Statuto Speciale già elaborato per la Sicilia.

Lussu aveva smesso in esilio di privilegiare la Sardegna come luogo esclusivo della sua milizia e del suo orizzonte politico. Soltanto adesso trovo la risposta ad un quesito che mi sono posto spesso leggendo “Un anno sull’altipiano”: perché non dice che quelli da lui raccontati erano soldati sardi? Perché, escluso zio Francesco, i personaggi non hanno neanche connotazioni specificamente sarde? La risposta è che Lussu recuperava tutta quella esperienza specifica di sardo e di sardi per farne un‘esperienza europea, di soldati e di ufficiali, ancor prima che italiani, europei.!

Qualche mese fa, Manlio Brigaglia, che sta studiando la vita di Lussu fuoriuscito, mi chiedeva perché, secondo me, Lussu avesse scritto “Un anno sull’altipiano”. La mia ipotesi era, fino a questo momento, che lo avesse scritto per rappresentare “A contrariis” che cosa dovesse essere un vero esercito (di un Paese democratico tra parentesi). Lussu ha riflettuto molto su questioni militari. Era un buon generale mancato, credo. L’insipienza dei generali lo interessava perché aveva un suo ideale di capo militare. Ho udito raccontare da suoi soldati che al fronte esigeva una disciplina anche negli indumenti, eccessiva e for­malistica per soldati che erano pastori e contadini. Lussu aveva una coscienza militare dell’organizzazione delle masse. È vero che nelle elezioni prefasciste, gli ex combattenti si recavano alle urne inquadrati militarmente? La sua vera musa non era la Sardegna (esclusa Armungia, rivissuta un po’ letterariamente come un luogo della memoria infantile. Cfr il Cinghiale del Diavolo, Formazione di un uomo politico democratico). Lussu intorno al 1936 incominciò a guardare alla Sardegna con una coscienza tutta esterna alla Sardegna, a considerare tutta la sua esperienza anteriore alla sua fuga da Lipari come una sorta di preistoria. Ovviamente non è giusto fargli una colpa di tutto ciò. La sua storia era quella. L’esilio aveva fatto di Lui un intellettuale e un democratico europeo. Di qui credo anche l’asprezza con la quale le parlava dei Sardi ingrati, … la sua sardità, la sua sordità alla Sardegna vissuta e sentita ancora dall’interno come l‘ha sempre vissuta e sofferta un uomo come Lei, che non ha avuto l’esperienza “allontanante” ed “estraniante” di Lussu. Ma purtroppo (non so se sia giusto questo avverbio) fu a Lussu e non a Lei che si offrì l’occasione storica di dare alla Sardegna una guida rivoluzionaria unitaria.

lo ho potuto conoscere Lei, meglio di quanto non abbia conosciuto Lussu e Bellieni, e posso testimoniare che in Lei c’era il fuoco sardista di cui avrebbe avuto bisogno Lussu nel 1945 per accendere la rivoluzione sarda. Ma Lei per farlo avrebbe avuto bisogno di essere anche Emilio Lussu, avere tutto il prestigio del suo passato glorioso e persino mitico. Lussu non sentiva il proprio mito (un mito è sempre l’invenzione di un popolo) che Lei invece sentiva con un grande ardore. Lussu era già un uomo disincantato, pago di aver avuto tanta parte nella vittoriosa lotta antifascista e ormai conciliato con la prospettiva della pratica parlamentare. Poteva essere, Lussu, il nostro Lenin, ma soltanto a patto di dimenticare la grandezza dell’altro. Io posso dirLe che dopo la scissione rimasi nel PSd’ A perchè vi restavano Puggioni e Lei. L’affetto per Lei mi ha indotto a rimanere nel partito più a lungo di quanto l’analisi critica della situazione storica e politica dell’isola non mi consigliasse di restare. Perché? Per una fedeltà affettiva, ripeto. Sono anch’io come Lei un barbaricino; e so quanto queste cose siano importanti. Mi considero sempre un sardista (anche un sardista). E perciò non ho avuto esitazione alcuna l’anno scorso, quando Mario me lo ha chiesto, e devo dire quasi scherzosamente, perché non aveva alcuna speranza di convincermi (eravamo stati anni senza salutarci dopo la mia uscita dal Partito), ad accettare di candidarmi per le regionali con l’assoluta certezza che non sarei stato eletto, ma con la tranquilla coscienza di fare cosa saggia contribuendo, per il poco che potevo, a sostenere in vita il PSd’ A. Vede, io credo che ancora il modo di porsi nei confronti del sardismo sia una questione centrale per ogni forza politica democratica in Sardegna.

La questione sardista è, a mio modo di vedere, tutt’uno con la questione dell’unità degli operai, dei contadini, degli intellettuali e dei ceti produttivi (dunque anche di alcuni strati della borghesia consapevoli dell’accelerazione del processo che li colloca in una posizione di sempre più accentuata dipendenza) intorno ad un progetto di profondo rinnovamento democratico e progressista (dunque in direzione socialista) della società e della cultura isolana. Il senso di quello che ho scritto a proposito di Bellieni è che la borghesia ed i suoi intellettuali non sono riusciti a creare, a costruire l’unità autonomista. Nel ’21 e nel ’45 si avvicinarono alI’obiettivo e di ciò, implicitamente, davo merito a Bellieni ed agli intellettuali borghesi della sua generazione, dei quali riconosco la generosità e l’alto sentire.

Ora Lei mi dice che non è questione di “borghesi”, nel senso che la ragione di fondo del decadimento del PSd’A non deve essere cercata nel fatto che a fondarlo ed a dirigerlo siano stati degli intellettuali “borghesi” (mi pare sia questo il significato della sua osservazione succinta; se sbaglio mi corregga). È una questione che merita un’analisi più approfondita. Quel che in­tendevo dire – e che non potevo, dirò in quattro parole – non è che i fondatori e dirigenti del PSd’ A avessero il torto di essere degli intellettuali borghesi (sono degli intellettuali borghesi anche la maggior parte dei dirigenti del PCI, e non trovo niente di scandaloso in questo fatto; era un intellettuale borghese anche K. Marx); lo era certamente anche Emilio Lussu, e così via. Il mio appunto andava in altra direzione .. Intendevo dire che Bellieni e la sua generazione di intellettuali borghesi ma progressisti aveva riposto la propria fiducia sulla borghesia, in una classe sociale che non la meritava (in una classe sociale addirittura inesistente in Sardegna come classe – ma su questo punto il di­scorso si farebbe troppo lungo). Parlavo di fiducia “mal riposta”. Lussu e Lei, quando parlate di sardi “ingrati, puttane, etc.”, a quali sardi vi riferite? Ecco, il punto. A mio modo di vedere è stata la borghesia sarda a non saper raccogliere l’appello· del PSd’A. Altro problema è vedere perché non lo abbia raccolto (e la mia ipotesi è che non potesse raccoglierlo in quanto era, è, una classe sociale priva essa stessa di autonomia, dipendente, meno che mediatrice del potere economico e politico esterno alla Sardegna, estensione, strumento di quello che Gramsci chiamava “il blocco storico”).

Certo il Psd’A chiamava all‘unità non soltanto la borghesia urbana e rurale bensì anche i pastori, i contadini, gli artigiani, i minatori, gli operai. Ma la classe operaia sarda non esisteva ancora (tranne che nel Sulcis-Iglesiente). La classe operaia è in formazione in Sardegna nel nostro tempo. Non è neanche oggi un dato, lo era tanto meno allora. La coscienza di classe non è, poi, mai un dato.

Questa lettera, incominciata qualche giorno fa, è diventata ormai troppo lunga; e bisogna che la concluda per potergliela spedire. Ma una riflessione sulle questioni toccate o implicate dalla Sua lettera non può arrestarsi a questo punto. Sarebbe molto opportuno che nelle Sue memorie – nella misura in cui Le sarà consentito di scriverLe al riparo dall’immediatezza della lotta politica – Lei ripercorresse il vissuto con minore amarezza di quella che traspare dalla Sua lettera. La speranza – deve esserlo anche per Lei – è che la nuova classe operaia sarda (che ben a ragione guarda, non soltanto con grande rispetto, ma anche con ammirazione e con gratitudine a quel che Lei ha fatto per il sardismo, alla lezione di coerenza e di intransigenza che viene dalla sua vita di militante sardista) sappia fare quel che la borghesia non ha saputo fare.

I sardi non possono essere messi tutti dalla stessa parte degli ingrati e degli immemori. Molti sono “ingrati” perché non sanno (non gli è stata data la possibilità e l’occasione di sapere); altri sono ingrati perché il sardismo ha disturbato le loro facili posizioni di privilegio e di potere; altri non sono grati perché non hanno avuto nulla di cui essere grati; ed infine molti non sono né ingrati né immemori, ma attenti e sempre pronti a rispondere alle chiamate.

Ma vede, caro Titino (mi consenta di chiamarLa con l’affetto che merita e che nutro per Lei senza riserve), l’errore è quello di attendersi gratitudine. Il premio per tutto quello che Lei ha fatto e che continua a fare è, oltre che nella coscienza di averlo fatto, in tutto quello che c’è di nuovo, di forte, di teso nella co­scienza dei giovani lavoratori sardi di oggi, degli studenti, degli intellettuali, nel diverso che c’è in Sardegna rispetto agli anni nei quali Lei ha incominciato la sua lunga lotta. Molti, me compreso ovviamente, sanno bene di doverLe giudizi illuminanti, esempi decisivi di autonomia intellettuale.

La sua amarezza mi rattrista, perché non è coerente alle prove che ha dato in tutto il corso della sua vita. I popoli, ma più precisamente gli oppressi, prima o poi sanno riconoscere e distinguere i propri eroi ed i propri santi. Il momento della “gratitudine”, come Lei chiama una categoria che forse è la “storia”, è il momento nel quale gli oppressi si liberano. Fino a quando restano oppressi si può soltanto dare loro torto, come Lei ha da­to, senza averne niente altro che la tranquillità della propria coscienza e il conforto di sapere che quello che si dà conta e conterà. Come qualche divinità, gli oppressi non pagano il sabato, ma pagano.

C’è in una lettera di Gramsci alla madre un passo che dovrebbe ripagarla delle delusioni della vita politica; è quello nel quale egli dice che il paradiso delle madri è il ricordo che lasciano nei figli. C’è anche un brano di Salvatore Cambosu che dice, con altre parole, la stessa cosa: l’uomo è il ricordo che lascia. Lei sa quanto profondo e quanto radicato sia questo concetto nell’etica delle popolazioni sarde, soprattutto dell’interno. È un concetto che non butteranno via, perché anzi è destinato a trasferirsi dalle storie orali nella storiografia, via via che questi popoli oppressi si liberano e scrivono appunto la loro storia.

Caro Titino, mi perdoni la lunghezza di questa lettera, e gradisca, con gli auguri di buon lavoro, di buon natale, di buon anno e di lunga vita,

un abbraccio dal suo Michelangelo Pira che la ringrazia per la Sua lettera.

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