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L’Avvenire della Sardegna

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Chi si prendesse la pena di leggere tutti i discorsi pronunziati dai rappresentanti sardi al Parlamento, da quello subalpino a quello nazionale fino ai primi decenni del secolo, si farebbe una visione abbastanza completa della vita civile dell’Isola durante il periodo dall'unificazione nazionale a poco prima del fascismo. E quel secolo è spiegato dal secolo che lo precede, ancora più meschino, tolta la parentesi rivoluzionaria popolare della fine del XVIII secolo che la illumina per un attimo.

Perché la Sardegna ha vissuto un periodo così lungo di vita meschina?

E perché è ancora così arretrata, secondo la mia personale esperienza la regione più arretrata d’Europa?

Certo, il presente di ogni paese è legato al suo passato, né io mi propongo un saggio storico-politico sull’Isola. Mi sforzo solo di cercar d’ intravvedere che cosa potrà essere l’Isola nell'avvenire.

Noi sardi, tutti io credo,soffriamo di complessi che sono certamente in gran parte atavici. Noi conosciamo bene il nostro stato e vediamo le nostre debolezze: li confessiamo a noi stessi, ma non amiamo che gli estranei li facciano propri. E il fatto che la nostra regione è un’isola – la Sicilia non lo è affatto –un’ isola a scarsa popolazione, in cui la malaria ha dominato per millenni e per millenni, i matrimoni sono avvenuti prevalentemente tra sardi, pesa molto sulla nostra psicologia e sul nostro carattere. Per cui un po’ tutti, nazionalisti o internazionalisti, borghesi, intellettuali o proletari,abbiamo dentro di noi qualcosa di caratteristico che ci fa simili prodotti della stessa specie. Tranne quei sardi «aria del continente» che, usciti dall’Isola giurano di non rimetterci più piede, e pensano e parlano della propria terra col sussiego é il distacco del parente ricco di fronte al resto della famiglia rimasta povera.

Ma questa unità psicologica non ci ha mai unito, né ci unisce tuttora. Poiché la disunione è la prima nostra impronta. Noi siamo tutti,e i nostri figli lo saranno certamente meno di noi,mala­mente individualisti, con tutti i guai che l’individualismo,questo orgoglio mal piazzato comporta.

È che ci sentiamo di essere una nazione mancata,senza ancora avere la piena coscienza o senza voler riconoscere che così doveva essere né poteva essere diversamente, ché un’isola così piccola, rispetto alle grandi isole degli altri mari, con questa sua posizione nel Mediterraneo, non poteva in nessun secolo vivere indipendente e sovrana. Questa nostra ostinazione a non voler ammettere la fatale sconfitta collettiva come popolo ci ha offerto solo la rivincita di un ripiegamento sulla personalità del singolo.

Considerazioni queste attorno a cui l’attenzione di parecchi tra noi gira da trent’anni. Considerazioni che non sono sempre comuni ai più dei cittadini delle due città principali – le sole città che possono chiamarsi tali –ma la reale popolazione cittadina, quella cioè maggiormente arricchita di elementi non sardi nei secoli, è direttamente sensibile a queste considerazioni, le quali peraltro rifuggono dalla pretesa di assumere rappresentanza ufficiale.

L’unità è sempre mancata a noi sardi. «Centu concas centu berriiias » è un nostro proverbio ancora corrente, e «pocos, locos y malunidos» è il noto giudizio spagnolo.

Questo è un grosso problema per noi.

lo sono nato in un piccolo villaggio di montagna, tra quelli che la civiltà romana conobbe per ultimi. Villaggi-stato di cacciatori, pastori predoni, con leggi consuetudinarie rigide sulla vita in comune, sulla pastorizia, sulla caccia e sulle rapine, contro i quali i romani, a difesa delle pianure agricole del vasto Campidano di Cagliari, collocarono posti militari che, diventati villaggi, esistono ancora.

E nella mia infanzia ho conosciuto gli ultimi avanzi di una società patriarcale comunitaria, senza classi, in cui i “patrimoni” più vistosi erano stati ottenuti con matrimoni fra i figli unici, eredi di due famiglie. Con ogni probabilità, la continuazione della stessa società che, con lievi sovrastrutture, dall'epoca nuragica resistette a tutte le civiltà dominanti, fino alla piemontese. Noi ragazzi del villaggio, sempre tutti scalzi alla maniera antica (i ragazzi mettevano la prima volta le scarpe pochi anni prima dell’età in cui a Roma i giovani cittadini lasciavano la pretesta) ci organizzavano per fare delle spedizioni provocatorie o di rappresaglia contro i ragazzi dei villaggi finitimi, oltre la vallata, dei quali parlavamo con la stessa certezza di superiorità e con lo stesso disprezzo con cui i balilla e gli avanguardisti del regime si riferivano, ai loro tempi gloriosi, alla Francia, all'Inghilterra  all’Unione Sovietica o all'America  La gioia dei nostri cuori e l’eccitazione della nostra fantasia erano i racconti degli anziani, ancora nel costume oggi scomparso. Racconti di caccia al cervo, al daino e al muflone anch'essi oggi scomparsi dalla regione, abbelliti di particolari di magia; e racconti di cavalcate eroiche e d’incursioni armate «oltre frontiera». E mio padre, che nella sua prima gioventù andava a cavallo persino dal barbiere, e considerava indecoroso uscire dal territorio del Comune («oltre frontiera») senza il fucile (fisso a un sostegno accanto alla staffa di destra e tenuto con la mano all'altezza delle canne), e senza le due pistole agli arcioni (licenza di porto di fucile e di pistole, lire due), ripeteva in famiglia nelle notti d’inverno attorno al focolare i racconti dei tempi lontani così come glieli raccontava suo nonno. Il quale, a sua volta, li aveva sentiti da suo nonno quando rievocava i begli anni della sua gioventù (i primi del XVIII secolo). Si partiva tutti a cavallo e armati – raccontava il XVIII secolo – ogni anno dopo le vendemmie, per la provvista del grano, oltre frontiera, nei villaggi di pianura dove non vivono pastori. Preferibilmente prima dell’alba, o sotto la pioggia che obbliga tutti a chiudersi in casa. Le operazioni di sorpresa erano le meglio riuscite, senza morti e talvolta anche con pochi feriti. E si ritornava nel tripudio del villaggio che non avevano chiuso occhio nell’attesa.

Il compianto professor Taramelli, che dopo La Marmora ha più di ogni altro e lungamente dato allo studio della Sardegna antica, forse troppo approfondendo le ricerche statistiche ricostruite a fine tavola, mi faceva il calcolo dei presunti quintali di grano che i miei antenati avrebbero ammassato nei secoli, ottenendone il numero in rapporto al numero presunto dei cavalli di quell’epoca, infinitamente superiore a quello d’oggi. Il che non impediva che io vedessi tutto il villaggio, compresi i notabili, mangiare nero pane d’orzo, a espiazione dell’opulenza passata.

Noi siamo stati sempre disuniti e nemici fra noi stessi, sotto gli spagnoli, sotto gli aragonesi, sotto igiudicati, sotto i romani, sotto i cartaginesi, sempre. Loro solo erano uniti. Il loro Stato non era il nostro Stato, e impotenti a sbarazzarcene, ci ripiegavamo su noi stessi, ognuno per proprio conto, nella famiglia e nel villaggio: e villaggio contro villaggio, l’uno contro l’altro nel­lo stesso villaggio.

Non abbiamo perciò neppure avuto la possibilità di unificare la nostra lingua che pure la fine della dominazione romana deve averci lasciato unica. E non so con quale attendibilità Unamuno, uno dei massimi esperti delle lingue neo-latine, nelle conversazioni avute con me in esilio, potesse sostenere che la lingua sarda, la vera, la nazionale, fosse il nuorese, che egli conosceva; poiché il nuorese non è parlato che nei centri della Barbagia omonima, nella Baronia di Siniscola e nella Barbagia di Bitti, cioè neppure in una decima parte dell’Isola, mentre il logudorese, che noi consideriamo un po’ come il nostro toscano, lo è nel 30% e il campidanese nel 50% all’incirca.

Sempre divisi al punto che l’antagonismo fra Cagliari e Sassari perdura ancora, fatto proprio persino da qualcuno dei massimi esponenti viventi della politica e della cultura. E a Sassari, gli abitanti oltre la regione cittadina, sono ancora chiamati «i sardi».

Le radici di tutto ciò sono ben lontane. E ho ragione di dubitare di quella tesi sulla nostra preistoria per cui certi sbarramenti di nuraghe costruiti con un sistema di ridotte, di cui esistono ancora più tracce, fossero posti a difesa da invasori stranieri provenienti d’oltremare, e non invece, come è più probabile, a protezione dei pascoli e delle cacce e della scarsa agricoltura; in un’epoca. in cui la regione doveva essere afflitta e dalla siccità e dal vento non meno che ai giorni nostri. Fra tribù e tribù il popolo nuragico doveva essere in guerriglie permanenti, con rapine, furti di bestiame e persino ratti di donne. Da ragazzo ho conosciuto ancora in qualche villaggio finitimo al mio la cerimonia delle nozze fra uomo e donna di differente villaggio, che si concludeva con la fuga a cavallo del giovane sposo portante in groppa la sposa, e i parenti di questa lanciati a galoppo nell’ inseguimento, che sparivano in un vortice di polvere, esattamente come nel rito longobardo. Ma i longobardi non misero mai piede in Sardegna, e di altri germanici non se ne conobbero che sulla costa, e per pochi decenni.

Mai unione dunque, neppure nei tempi più lontani. Giovanni Siotto Pintor, che appartiene alla borghesia colta della prima metà del secolo XIX, scrive la Storia civile dei Popoli Sardi del suo secolo. Popoli sardi, quasi che la Sardegna fosse un impero di popoli vari, e non un’ isola di malapena 500.000 abitanti, a quell’epoca.

Ho citato gli atti parlamentari che riguardano i sardi durante l’ultimo secolo, perché vi è estranea la lotta politica. Noi non abbiamo avuto lotta politica, che è la sola che porta all’unità. E non credo azzardato pensare che il brigantaggio fenomeno collettivo, quello che è finito nel secolo scorso, e del quale i rapsodi ciechi cantavano le gesta percorrendo l’ Isola di festa in festa, fosse l’ultimo avanzo della resistenza delle regioni più protette dai monti, fin dalle conquiste romane. Il che fa sì, in realtà, che noi non abbiamo avuto storia. La nostra storia è quella di Roma, di Aragona ecc. ecc. Il periodo dei giudicati, che con ogni probabilità non sono d’origine locale ma principati creatisi attorno ad alti funzionari bizantini nel periodo in cui Bisanzio lasciò cadere l’ Isola, è quello che di più accosta le nostre vicende a quelle delle Signorie che, nella maggior parte delle città d’Italia., hanno unificato padroni e servi. Eppure, tranne Cagliari e Sassari, in cui la borghesia commerciale di tutti i tempi si accordava facilmente con i dominatori, il resto dell’Isola avrebbe dovuto presentare tutt’altro che semplice la sottomissione. Dal periodo aragonese alla metà del secolo XIX i contadini e i pastori lavoravano per mantenere in vita oltre 350 feudatari, tanti l’Isola allora spopolata più che non oggi, ne contava, compresi quelli viventi in Ispagna. Vero è che se i sudditi erano miserevoli, i signori non lo erano meno. Dovevano vivere solo di albagia come, ogni collina un castello, la piccola nobiltà di Guascogna affamata. Le loro case sono la testimonianza della loro piccola vita. Nessun palazzo di antico feudatario esiste da noi che assurga alla dignità del modesto edifizio per la servitù che a Pesaro i duchi di Urbino posero di fronte alla loro signorile dimora. Niente di grandioso essi hanno costruito o conosciuto, all’infuori della loro ingordigia.Di grandioso, l’Isola non ha che le costruzioni delle sue tribù preistoriche, e il vento.

Fino al ’900, niente lotta politica. Neppure l’autonomia che ci venne dai re d’Aragona fu una nostra conquista. Gli Estamentos altro non sono stati che un sistema politico abile per rendere più sicura la nostra sconfitta.

La lotta politica comincia in Sardegna con la lotta di classe dei minatori delle grandi miniere dell’Iglesiente: con essa ha inizio la Sardegna moderna. Lotta vivificata non da ideali regionali, ma nazionali e universali. A loro fianco, ma ricollegandosi al movimento per la terra della fine del XVIII secolo, sorse nel primo dopo-guerra, il movimento del Partito Sardo d’Azione, cioè dei contadini e dei pastori. Anch’esso poneva l’istanza universale dell’emancipazione dell’uomo, ma faceva appello particolare al popolo sardo. Il fascismo, contro cui il Partito Sardo d’Azione diresse la lotta, ne arrestò lo sviluppo.

Non abbiamo avuto neppure la guerra partigiana, ché i tedeschi, a settembre, per la complicità dei nostri capi militari, sono passati in Corsica, pacificamente, e il fascismo sardo si è evaporato e mimetizzato in un giorno.

La Sardegna traversa oggi una crisi che si potrebbe chiamare di trapasso. Alla vecchia società patriarcale, individualista e immobile, subentra una Sardegna che comincia ad essere collettiva e in movimento. I principi che reggevano la prima sono scomparsi né sono ancora fissi quelli che dovranno reggere l’altra. Per cui si possono fare oggi dei rilievi con molta serenità.

Le tanto decantate nostre qualità ataviche- sentimento dell’onore, coraggio, disciplina, lealtà, fedeltà alla parola data ed altre consimili – sono favole. Non siamo né migliori né peggiori degli altri. Il fascismosi affermò da noi, vile imbroglione e caporalesco, come altrove, in tutta Italia. In un certo senso, si è avuta la dimostrazione che la nazionalizzazione dell’Isola era avvenuta come nelle altre regioni d’Italia.E la nostra costanza- l’ostinazione – è la stessa nel bene e nel male. Abbiamo troppo sofferto sempre, perciò la nostra caratteristica non è la bontà: direi anzi i1 contrario. Noi siamo tutti piuttosto cattivi, a freddo, senza trasporti sentimentali. La stessa vendetta lo dice. Essa non esplode immediata e pubblica, come in Corsica, incontenibile risposta all’offesa. La vendetta sarda è covata lungamente, silenziosa e clandestina, per anni, spesso per tutta la vita; e colpisce calcolatamente, solo nel giorno più propizio, sì che alla strage del nemico corrisponda l’incolumità propria e, possibilmente, l’ergastolo per il nemico numero due, verso cui devono convergere tutti gli elementi di accusa. Vendetta, come ognuno vede, impeccabilmente razionale.

 

Per cui la stessa cattiveria, impronta dei servi (captivus)i quali appaiono irrimediabilmente malvagi, non è differente neppure oggi da quella che Cicerone vedeva negli schiavi sardi venduti sul mercato di Roma. Di qui indubbiamente quella nostra ironia che appare disarmata ma che ferisce, e che fa del sarcasmo la nostra naturale impronta. Antonio Gramsci, nei suoi scritti è, a mio parere, l’espressione più vera di questo nostro stile. Espressione estranea alla Deledda che, descrivendo il nostro mondo reale, lo fissa, ma non aspira a portarlo innanzi, nell’avvenire. E Sebastiano Satta l‘ha annullata in una oratoria sostenuta che non la consentiva: oratoria assolutamente estranea al nostro «genio».L’ ha sentita come«spietato» solo Ciusa, in quella sua Madre delI’ucciso che non per nulla sembra ispirata al bronzetto dell’epoca nuragica, che egli ignorava.

 

Ci siamo chiesti tante volte perché la Sardegna che ha tanto sofferto non ha dato all’arte un grande lirico, nella poesia o nella musica. Non ne abbiamo avuto. Solamente Gavino Gabriel, ricom­ponendo alcuni canti e ballate popolari, ha saputo cogliere e mostrare in una forma non accessibile a tutti i non sardi, gli echi e più ancora gli annunzi di un meraviglioso mondo della gioia triste e del dovere contenuto, che il nostro genio esprimerà domani con accenti universali.

Ci è mancata l’arte. È che anche l’arte è storia. E perciò, non avendo avuto l’una, non potevamo avere l’altra.

La nostra umanità è nel profondo della nostra sofferenza checi è stata tramandata da una generazione all’altra.

Questa umanità è legata al ricordo del dolore dentro di noi, e che finora non abbiamo espresso in forma creativa, neppure in politica, e tanto meno in politica, e che può diventare sublime se si offre al bene generale, non può essere meglio espressa, io credo, che dal sacrifizio con cui tanti sardi, in guerra, nella lotta partigiana pur lontani dalla propria terra, nella lotta politica, hanno spontaneamente e semplicemente offerto la propria vita per la vita di tanti altri, anche sconosciuti.

La mancanza d‘iniziativa che generalmente ci viene addebitata – e non proprio a torto io penso- èanch’essa un prodotto storico, e va inserita fra gli elementi che sono effetto e non causa delle spoliazioni e delle oppressioni subìte e della nostra arretratezza. Non è a caso che gli emigranti sardi, tutti, rientrano nei loro villaggi d’origine dopo quarant’anni,poveri come ne erano partiti dopo aver venduto i loro pezzetti di terra dispersi. Un sardo, un Matarazzo, partito contadino analfabeta e diventato miliardario nel Brasile, sarebbe per noi una specie di Gran Lama nuragico reincarnato. Noi portiamo, sotto i nostri piedi, la terra sarda, dovunque, e ci viviamo sopra come i contadini vi hanno sempre vissuto per millenni. Perché agitarsi? E a profitto di chi? Non è ancora arrivato il fatto atteso, che è già nell’inizio della rinascita popolare presente, della Sardegna collettiva, unita e operosa, che succeda alla vecchia Sardegna dei sardi solitaria e immobile.

Certamente, la Sardegna conoscerà una resurrezione, inserendo la sua vita nella civiltà italiana, europea e universale, di cui ormai è partecipe. Il fascismo ha peraltro segnato per essa un passo indietro corrompendola, dividendola ancora e di più isolandola, com’è avvenuto con tutte le dominazioni straniere. Il fascismo per la Sardegna, può essere solo comparato, nel suo passato, alla dominazione aragonese e spagnola. E col suo crollo, vi ha portato, in strati fascisti e non fascisti, quei nazionalismo esasperato proprio del fascismo in Italia, il quale per una grande nazione è sempre un’avventura tragica ma per una piccola regione, isolata per giunta, è fumisteria grottesca. Come è stato grottesco, dopo la Liberazione, quel nazionalismo sardo indipendentista, che finiva col puntare le fortune dell’Isola sull’America o sull’Inghilterra. Spedito e allegro indipendentismo, che si metteva alle immediate dipendenze del miglior offerente, nel caso nostro solo putativo. Ma così è il nazionalismo.

La Sardegna risorgerà, e saremo noi sardi gli artefici del nostro avvenire.

Ma senza la solidarietà dello Stato nazionale, son fantasticherie sognare rapide rinascite. E tale solidarietà è vano mendicarla. Né può essere spontanea. Non può essere che una conquista della lotta politica, inscindibile da quella del resto dell’Italia. E, come ogni conquista, imporrà lunghi e duri sacrifici.

La Sardegna ha oggi uno sviluppo industriale che la mette alla testa delle regioni del Mezzogiorno; ma a questo non corri­sponde il progresso del restante dell’Isola. Questa frattura, unica nelle regioni d‘Italia, è la conseguenza del tipo colonialista: della nostra industria. Legare lo sviluppo dell’una alla trasformazione agricola dell’Isola, e subordinare a quest’ultima la prima è il presupposto della nostra rinascita economica e sociale. Quando si pen­si che 900.000 ettari di terreno- dati tecnici- sono trasformabili e passibili di diventare produzione agricola, ci si può fare un’idea non solo delle possibilità dell’Isola, ma dell’apporto che esso può dare all’economia e alla civiltà nazionale.

Lo Statuto autonomistico vigente contempla questa collaborazione della Regione e dello Stato per la rinascita dell’Isola. Ma l’autonomia è ancora sulla carta, così come lo è lo Stato democratico che in comune abbiamo costituito.

Molte cose sono sulla carta, in Sardegna. Ma v’è anche parecchio lievito in fermento. Tutto un nuovo mondo si muove, dentro di noi, ed è già alle sue prime luci certe del mondo esteriore. Vi sono molti secoli che premono e che ci spingono, oltre il focolare e la casa sprangata, oltre il nostro canto chiuso fatto di echi di lamenti senza principio e senza fine. Perché non dirlo? Sentiamo che il popolo sardo, come i popoli venuti ultimi alla civiltà moderna è già fattisi primi, ha da rivelare qualcosa a se stesso e agli altri, di profondamente umano e nuovo.

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